Teoria dei quanti di luce

Marzo 8th, 2021 | by Marcello Colozzo |

quanto di luce, effetto fotoelettrico, fotone


Effetto fotoelettrico. Introduzione

Nel 1905, Albert Einstein reinterpretò l'ipotesi di Planck introducendo la nozione di fotone (o quanto di luce). Più specificatamente, Einstein elaborò un modello teorico dell'effetto fotoelettrico. Verso la fine dell'Ottocento, Hertz, Hallfacks e altri, avevano osservato che irradiando una superficie metallica in alto vuoto, con una radiazione di frequenza sufficientemente elevata, si aveva una emissione di elettroni. In particolare, la superficie metallica è un fotocatodo di un tubo elettronico, per cui gli elettroni emessi dal fotocatodo raggiungono l'anodo grazie a una assegnata differenza di potenziale V che può essere cambiata attraverso un potenziometro. La conseguente intensità di corrente I viene poi misurata da un amperometro. Sperimentalmente si osserva un "controcampo"


e un valore di saturazione:

Altri notevoli fatti sperimentali:

  1. L'emissione di elettroni si verifica solo se ν > ν0, dove ν è la frequenza della radiazione incidente e ν0 un valore caratteristico dipendente dal metallo.
  2. La velocità v degli elettroni emessi non supera un valore vmax e quest'ultimo aumenta linearmente con la frequenza della radiazione incidente. La predetta velocità massima è invece indipendente dall'intensità della radiazione.
  3. Il flusso di elettroni emessi (numero di elettroni emessi dall'unità di superficie e nell'unità di tempo) dipende dall'intensità della radiazione.

I fatti sperimentali elencati non possono essere spiegati dall'elettrodinamica classica. Ad esempio, illuminando una superficie metallica estesa, con una radiazione di intensità molto bassa, il flusso elettronico emesso è altrettanto basso (punto 3). Il processo di emissione è comunque istantaneo, mentre per l'elettrodinamica classica, l'elettrone acquisice l'energia sufficiente per essere strappato dal metallo, dopo un tempo relativamente lungo.

Cosa fece Einstein?

Contrariamente a Planck, secondo cui la radiazione elettromagnetica è quantizzata solo nei processi di emissione/assorbimento, Einstein estese la predetta quantizzazione ai processi di propagazione. Ne consiguerebbe l'esistenza di elementi di energia ε=hν che egli denominò quanti di luce o fotoni.
In questa rivoluzionaria cornice concettuale, l'effetto fotoelettrico è un processo d'urto tra i fotoni incidenti e gli elettroni atomici del metallo. Precisamente, sia ε=hν l'energia del fotone che colpisce un atomo del metallo. Un elettrone di tale atomo può essere emesso solo se ε=hν > L0 dove L0 è il lavoro meccanico necessario per strappare l'elettrone dall'atomo con la conseguente emissione dal metallo. Poniamo:


dove ν0 è una frequenza caratteristica del metallo (vedi punto 1). Ne segue che se ε > hν0 e quindi se ν > ν0, l'elettrone esce dal metallo con energia


per cui la massima energia dell'elettrone emesso è


a cui corrisponde una velocità massima vmax che dipende linearmente dalla frequenza della radiazione (punto 2). Si noti che la massima velocità non dipende dall'intensità della radiazione ma solo dalla frequenza. Restano così spiegati i punti 2 e 3.
Una verifica sperimentale della eq. precedente venne eseguita da Millikan. L'ipotesi dei fotoni attribuisce alla luce una doppia natura (corpuscolare e ondulatoria). L'aspetto corpuscolare è tuttavia diverso da quello proposto da Newton, secondo cui i corpuscoli della luce erano punti materiali dotati di una assegnata energia cinetica. Al contrario, partendo dal fatto che un campo elettromagnetico oltre a trasportare un'energia E, trasporta una quantità di moto E/c, Einstein assegnò al singolo fotone una quantità di moto


Rammentando poi l'espressione relativistica dell'energia cinetica di una particella di massa a riposo m:


si ha che la massa a riposo dei fotoni è nulla.

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