
Nel saggio La scomparsa di Majorana, lo scrittore Leonardo Sciascia cavalca una nuova ed entusiasmante pista.
Leggiamo un brano:
Nell'estate del 1924, in casa di Antonino Amato, benestante catanese, un bambino - unico figlio dell'Amato - brucia nella culla: tra il fuoco del materassino e quello della zanzariera. Non si pensa ad un delitto se non quando dai resti della combustione viene il sospetto e poi la certezza che del liquido infiammabile era stato sparso. Da chi, si arriva subito a scoprirlo: una cameriera di sedici anni, Carmela Gagliardi. E perché un delitto così tremendo? La ragazza si spiega: perché mia madre si ostinava a tenermi a servizio in casa Amato, mentre io volevo tornare a servire dai Platania, ai quali mi ero affezionata e che mi volevano bene. La spiegazione, appunto perché non convincente, non convince. L'enorme sproporzione tra il movente e l'atto, tipica dei "delitti ancillari", accende il sospetto, prima che della polizia, dell'Amato.
Il brano prosegue accennando a una controversia tra Amato e i suoi parenti su questioni di eredità. Nel frattempo la cameriera continuando a recitare la parte del mandante, accusò uno zio di Ettore (il bimbo in fasce era cugino di Ettore) che nel periodo successivo fu arrestato.
Riprendiamo la lettura del libro di Sciascia, dove viene citata Laura Fermi (moglie di Enrico Fermi):
Ettore si assunse la responsabilità di provare l'innocenza dello zio. Con grande risolutezza si occupò personalmente del processo, trattò con gli avvocati, curò tutti i particolari. Lo zio venne assolto; ma lo sforzo, la preoccupazione continua, le emozioni del processo non potevano non lasciare effetti duraturi in una persona sensitiva quale Ettore».